Joan Mirò: surrealismo e primitivismo

Joan Mirò, Persone nella notte, 1940 



Per comprendere al meglio le dinamiche del surrealismo, dobbiamo fare qualche passo indietro al 1918 quando Tristan Tzara pubblica il Manifesto dadaista. Le due correnti sono infatti legate tra loro.


Del 1920 è la prima mostra dadaista parigina e nella città Tzara entra in contatto con André Breton, fondatore della rivista “Littérature” organo principale per la divulgazione del dadaismo parigino.

Nel 1922 Breton diventa unico direttore della rivista, ma ben presto si schiera contro i dadaisti, pubblicando il manifesto anti-dadista: Breton vuole imporre una svolta e già nel periodico da una prima idea del termine surrealista.


Nel 1923 Breton si svincola dal gruppo e nel 1924 scrive il Manifesto Surrealista.


Non vi è una fusione delle due correnti ma un cambiamento netto per cui il surrealismo vede alla base la scoperta dell’inconscio di origine freudiana e non ha più nulla a che vedere con la filosofia del caso che interessava la corrente dadaista.

Se nell’inconscio noi pensiamo per immagini, l’arte si identifica come il mezzo ideale per dar vita a quella sfera nascosta in ognuno di noi e così come nella terapia psicoanalitica, l’esperienza onirica è quel momento in cui tale sfera può manifestarsi.


Nel 1928 Breton pubblica il saggio-manifesto Le Surréalisme et la Peinture, dove descrivendo ciò che per lui è la pittura indica le opere di alcuni artisti fra cui Arp, Masson, Ernst, Tanguy, Mirò. Tra loro Breton predilige l’opera di Max Ernst, il quale partendo da una concezione tradizionale di pittura, mescola stili e linguaggi sempre nuovi.

Nel 1938 l’esplosione del secondo conflitto mondiale porta alla fuga di molti artisti e ciò segna la fine del movimento surrealista.



Fra gli artisti più importanti legati alla corrente artistica troviamo, come citato precedentemente, Joan Mirò, catalano di nascita e fra le anime più particolari e meno tradizionaliste.

Sicuramente ingabbiarlo in una corrente come quella surrealista non è poi così adatto, lui sta lì, fra le pieghe, sfugge e si svincola ad ogni possibile definizione.


André Breton, in primis, mette in risalto soprattutto il lato più giocoso dell’artista facendolo fuggire dalla sua esistenza per nulla serena: due conflitti mondiali, una logorante guerra civile, tutte esperienze vissute e nascoste dietro la simbologia particolare, e molte volte non raggiungibile, delle sue opere.



Joan Mirò nasce il 20 aprile 1893 a Barcellona. L’origine catalana dell’artista è fondamentale per capire la sua identità; rivendica sempre le sue origini ed è l’unica cosa certa che porta con sé in un periodo storico fatto di forte instabilità politico-culturale.

Con la guerra ispanico-americana di fine 800, che fa perdere alla Spagna, Cuba, Portorico e le Filippine, il colpo è molto duro da incassare e la richiesta di rinascita e di innovazione da parte degli spagnoli è sempre maggiore. La Catalogna vive quindi un’atmosfera di generale favore nei confronti della Francia che porta in terra catalana nuove idee.


Il servizio militare lo coglie in un momento critico ma, svolto nella sua stessa Barcellona, ciò gli permette di continuare a lavorare alle sue opere.

Questi sono gli anni in cui il pittore frequenta la Galleria d’arte Dalmau, dove nel 1918, detiene la sua prima mostra: è proprio qui che si vocifera sui primi lavori di Picasso e di Duchamp e Mirò è ben felice di togliersi di dosso gli sguardi del provincialismo.

Passano gli anni e l’eco della nuova gloria parigina giunge fino a Barcellona, così l’artista parte nel 1920 e trova nuova vita lontano da una Barcellona diventata per l’artista ormai troppo stretta.

Di questi anni sono opere come: “Cavallo, pipa e fiore rosso”.


Joan Mirò, Cavallo Pipa e fiore rosso, 1920



L'opera che detiene la fine del primo Mirò risale al 1921-1922 ed è “La fattoria”.


Joan Mirò, La Fattoria, 1921-1922


Joan Mirò, Campo Arato, 1924

Con "Campo arato”  abbiamo un nuovo Mirò, che si svincola da tutto, che non segue più nulla, che non osserva più ciò che c’è attorno a sé, ma solamente dentro di sé, dandone nuova interpretazione.


Diventa un primitivo, diventa il primitivo per eccellenza del surrealismo, Breton dice di lui che la sua personalità si è fermata allo stadio infantile. Mirò ora vive egli stesso in una condizione surreale, egli stesso vede il mondo come dipinge le sue opere.

La sua “giocosità” ora sembra frivola talvolta, ma invece sfocia in un regno fatto di grazia: gioia e innocenza sono le uniche parole d’ordine.


Nel 1939 sotto consiglio di un amico, Mirò lascia Parigi e si sposta in Normandia con la famiglia. Qui lavora ad una serie di dieci opere chiamate “costellazioni”, poi ne esegue altre dieci e tre per conclude il ciclo con l’opera “Passaggio dell’uccello divino”. In queste ventitré tele troviamo l’artista che noi tutti conosciamo, che cosparge il mondo di colori e simboli forse nella speranza di contrastare tutto l’orrore visto nella sua vita.



Joan Mirò, Costellazioni, 1939-1941 


Nel Maggio del 1940 l’aviazione tedesca bombarda la Normandia e decide così di tornare in patria, continuando il suo lavoro fra Barcellona e Palma di Majorca.

Abbandona l’opera surrealista e si ispira alla semplicità del disegno primitivo. Del 1940 è la prima grande retrospettiva dell’artista a New York, al Museum of Modern Art, portando con sé proprio le opere meditate in Normandia.

Quando giunge alla costruzione del suo personale studio, a Palma di Majorca, chiamato Taller Sert, l’artista non è più interessato a nulla di ciò che lo circonda. 


Fra gli anni ’60, ’70 e ’80 conduce una vita tranquilla fra le sue tele che continuerà a lavorare fino a due anni prima della morte, avvenuta nel 1983, all’età di 90 anni.


Chiara Bazzotti

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